Edoardo Vitale: essere straordinari
Un viaggio nell'amore ai tempi della performance
Pochi scrittori sanno già come andranno a finire le loro storie nel momento in cui le iniziano: la maggior parte si affida a pensieri fluttuanti e all’energia delle dita, pronte ad ordinare un mondo astratto, dalla lenta costruzione, che di lì a breve diventerà reale.
È successo ad Edoardo Vitale, che aveva voglia di scrivere una storia d’amore, un po’ diversa dalle altre, un po’ distante dalla retorica dei buoni sentimenti eterni, decisamente più ancorata alla vita vera, quella delle giornate che si ripetono, dello svegliarsi la mattina, andare a lavoro, pranzare, tornare a lavoro, cenare, mettersi nel letto, e lì, prima di chiudere gli occhi e cadere in un oblio necessario, sentirsi vuoti, percepirsi insignificanti, svuotati di un senso che un tempo si bramava e si rincorreva. Ne “Gli straordinari” ci riesce: i protagonisti sono risucchiati dal buco nero delle loro professioni in una multinazionale bulimica e ossessionante, che esige produttività e costanza e disciplina e possibilmente anche entusiasmo e spirito di squadra, magari anche autentici, in una richiesta assurda e incolmabile. È il grande tema dell’alienazione, che da quasi due secoli domina gli animi dei lavoratori di ormai ogni classe sociale e tipologia, ma ancora troppo poco le narrazioni correnti (bisognerebbe continuare a parlare di lavoro, di quello nero, di morti bianche, di salari minimi inaccettabili, di disparità civili e sociali, di insicurezza, di precariato e così via); ed è anche una sua estensione, un’esplorazione delle sue ricadute profonde, relazionali ed esistenziali.
Elsa e Nico tornano a casa la sera e sono stanchi, provano a parlare anche se non ne hanno voglia, cercano di mantenere un’apparenza di benessere e serenità, si abbracciano quando possono, si cercano; e l’amore, non sognato e perfetto, ma concreto, è questo.
La fine dell’epoca dell’amore sembra essere arrivata. È il capolinea della giovinezza, crediamo, anche se abbiamo solo 18 o 30 o 40 anni. Il treno ha terminato la sua corsa, bisogna che si scenda subito, prima di rimanere intrappolati nel passato. I paesaggi e le cose e i volti sembrano inaridirsi e perdono la loro carica suggestiva; appassionarsi a qualcosa, lottare per una causa: lontani ricordi di una vita precedente, trasognata, impossibile da riottenere.
Sentiamo la nostalgia invaderci. Era l’età aurea. Il buon tempo andato.
Oppure no.
Oppure questo rifugiarsi nel ciò che è stato è frutto dell’incapacità di investire ancora forze in un ideale. È un’accidia, una pigrizia morale, un’inerzia che andrebbero combattute.